Il dibattito pro o contro la promozione turistica del folklore è un dibattito di lunga durata che vede contrapporsi i sostenitori a quelli che sono contrari. Le critiche sono rivolte soprattutto al fatto che, per venire incontro alle aspettative del turista, si trasforma la cultura popolare in spettacolo, mettendo in moto “una macchina perversa” la quale, in cambio del vantaggio economico, richiede un’esibizione folklorica pittoresca e di facile realizzazione per accogliere il turista. Per realizzare la spettacolarità e quindi attirare turisti si “ripescano” feste, giochi “pseudo-etnici” o che si richiamano a una tradizione ormai scomparsa; s’inventano costumi, coreografie e modelli canori orecchiabili. Molti hanno visto in questo una preoccupante forma di “perdita dell’identità”, poiché si adulterano i residuali contenuti di “autenticità” e si dà vita ad un folklore “stucchevole”, vuoto, artificioso, senza senso né radici.
Alla fine degli anni ’50 Paolo Toschi sosteneva che era importante che tutti fossero partecipi dell’importanza storica e del valore delle tradizioni popolari e per ottenere questo l’azione si doveva svolgere su due direttive: 1) pubblicare opere, saggi, e articoli di divulgazione scientifica, nonché organizzare congressi regionali e nazionali; 2) intensificare le manifestazioni folkloristiche di maggiore attrattiva anche sotto il punto di vista del turismo, ma controllarle perché conservino il loro genuino carattere.

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Il discorso verrà portato avanti in seguito; nel 1962 Toschi parlerà di «manipolazioni arbitrarie del folklore» che si sono avute dagli anni Venti in poi, da parte di singoli dilettanti o di Enti la cui attività è dedicata ai cosiddetti loisirs ouvries o al turismo. Toschi non critica «la buona intenzione dei manipolatori e arrangiatori» di canzoni, danze, e molte altre manifestazioni folkloristiche, poiché il movente di chi le prepara e di chi le esegue, nella maggioranza dei casi, è «onesto e laudabile»: conservare e valorizzare la tradizione popolare di una determinata regione o provincia o città. Critica il fatto che, il più delle volte, la preparazione culturale nel campo specifico del folklore da parte di chi si è assunto quel compito è insufficiente e per questo ne derivano «deviazioni, storpiature, imitazioni parodistiche»; cambiamenti tali da rendere irriconoscibile la “genuina” tradizione. Tra le forme che più ne hanno “sofferto” ci sono, oltre le canzoni e le danze, i costumi, intesi come fogge di vestire, le rievocazioni di gare e feste cittadine e, in qualche caso, anche gli oggetti d’arte popolare:
«La creduta necessità di presentare vestiti in costume, i gruppi folkloristici corali e coreutici, anche là dove il costume tradizionale è scomparso da molto tempo, l’adattamento a canti in coro di canzoni tradizionali originariamente cantate ad una sola voce, adattamento eseguito da maestri di musica di paese che non hanno l’adeguata preparazione sulla vera natura del canto popolare e che, viceversa, nutrono una forte ambizione di introdurvi qualcosa di proprio, di individuale, hanno in molti casi prodotto un’abusiva falsificazione del vero canto tradizionale popolare con evidente danno sia riguardo alla genuinità, sia anche riguardo ai valori estetici.» (P. Toschi, 1962)

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Toschi conclude con due affermazioni che si riveleranno molto importanti anche per i dibattiti successivi sullo stesso argomento: «un surrogato arbitrario non varrà mai quanto un prodotto genuino» e auspica che «gli Enti interessati si rivolgano agli studiosi competenti e le manifestazioni ne trarranno sicuro vantaggio e ne guadagneranno in serietà, bellezza, autenticità».
Come si vede, Toschi nei suoi scritti ricorre più volte a termini come “autentico”, “genuino”, “vero”, contrapposti a quelli di “falso”, “arbitrario”, riferiti alle tradizioni e al folklore. E sarà proprio la ricerca di questa presunta “tradizione autentica” e della sua preservazione, ad arrivare fino ai dibattiti dei nostri giorni.
Arrigo Chiavegatti, favorevole alla “turisticizzazione” del folklore, auspica di rivitalizzare le tradizioni ed affida ai giovani il compito di questa rinascita. Sembra ritornare a una “presunta” immutabilità dei costumi per conservarli autentici quando, nel 1957 in occasione del VII Convegno Nazionale delle Tradizioni Popolari, afferma che in Abruzzo, grazie al suo isolamento, si sono potute conservare, attraverso i secoli «immutate e ancora vive» un cospicuo numero di tradizioni popolari. «Ma, perché queste manifestazioni possano esercitare un più efficace richiamo all’attenzione del mondo turistico, è necessario che vengano curate nei loro particolari, affidando la loro organizzazione a Comitati capaci di spogliarle da quella impronta paesana che troppo spesso le travisa, soffocando il loro originale significato; e per quelle rievocanti avvenimenti storici, dotando i personaggi dei costumi dell’epoca» (A. Chiavegatti, 1959).

Se tutta la sequenza della Madonna che scappa in piazza si svolge senza intralci (corsa, caduta del manto e fazzoletto, volo delle colombe), la tradizione prevede che l’anno sarà propizio, mentre se qualcosa non funziona come previsto, sempre facendo riferimento alla stessa tradizione popolare, vi saranno sventure o calamità naturali.
La preoccupazione diventa più grande se la statua della Madonna dovesse cadere durante la corsa o, ancor peggio, si rovinasse. Storiche sono le cadute del 1914 e del 1940, secondo alcuni, presagi delle successive guerre.
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Pochi anni dopo la pubblicazione dei libri di Toschi precedentemente citati c’è chi, ritornando alla contrapposizione “vero-falso” e criticando il binomio “folklore e turismo”, parla di un «microbo» in crescita:
«La parola “folklore” sembrò divenire ombra inseparabile della parola turismo. Si pretese di far assurgere a interessantissima rivelazione di caratteristiche tradizioni ciò che in fin dei conti non era che una limitata distrazione per stranieri di bocca buona. Da allora tutto quanto divenne “folklore”. La comoda etichetta venne appiccicata su tutto: sulle cose vere e sulle cose false, sulle tradizioni sincere e sulle più estemporanee invenzioni. La propaganda turistica, o quella che si crede tale, ne è rimasta intrisa fino ad un punto che la sua efficacia invece di esserne accresciuta ne viene spesso compromessa.» (L. Gamerra, 1966)
La critica è rivolta in particolare a quelle persone che, «per darsi prestigio e conquistare posizioni, tentavano di mascherare da scienza difficile e da scoperta esclusiva le loro elementari conoscenze ed esperienze», mettendo in mostra «curiosità» che non sono tali, costumi che non sono «interpretati ma posati su manichini viventi». In poche parole, fraintendendo e volgarizzando il folklore: «Il “folklore” non è una bancarella di souvenirs di cattivo gusto, di false catenine d’oro, di minuscole statuette che attraverso un piccolo buco qualsiasi mostrano la loro torre Eiffel o un Colosseo piuttosto approssimativo». Il folklore è «una scienza ed è una storia» ed il suo contenuto sono le tradizioni popolari intese «come le caratteristiche fondamentali di un popolo e, perché no?, di un particolare modo di vivere, anche come espressione di civiltà».

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Umberto Fragola, agli inizi degli anni ’70, partendo dal presupposto che i costumi e le tradizioni locali hanno una grande forza di attrazione per il turista (specie straniero), anche se talvolta sono a lui presentati in modo artefatto, “per turisti”, si chiede se conviene che al turista:
«gli si facciano conoscere i veri usi e costumi, fonte di confronti e di meditazione; o conviene farlo “divertire” senza andare troppo per il sottile, facendogli vedere la parte bella e buona del paese e non quella falsa e cattiva? […] è utile che lo straniero penetri nella mentalità e negli usi locali veri ed esatti o non ne vale la pena? [Il turista] se non è motorizzato si ferma nella località e si accontenta di quel “sistema di immagini” – vero o falso che sia – che la località gli offre; immagini – specie nei centri turistici “fondati” – spesso parziali e che non trovano riscontro nel vero “sistema di vita” locale, cioè nel contesto di tradizioni, usi e costumi, che sono gli autentici connotati di una comunità locale.» (U. Fragola, 1972)
Come si vede, anche in questo caso ritornano più volte i termini “veri”, “esatti”, contrapposti a “falsi”. Fragola continua affermando che, frequentemente «o perché manca la partecipazione alla vita degli indigeni, o perché i turisti sono distratti da beni voluttuari, o perché sono organizzati ed eterocomandati, si offrono ad essi delle immagini convenzionali e quindi fittizie e falsate del territorio abitato, delle specialità, dei costumi e delle danze folkloristiche, predisposte soltanto per i turisti.». Si tratta allora di stabilire quale è a vera immagine che si vuole (o non si vuole) esporre agli ospiti stranieri. Fragola riconosce che sono molto frequenti le immagini dei paesi, offerte dalla pubblicità turistica, «preordinate» per i turisti. Queste sono immagini false, convenzionali, quasi sempre contrastanti con la realtà; sono le stesse in tutti i paesi e contengono identici messaggi (paesaggio, buoni alberghi, danze folkloristiche, balneazione, campo di sci.). Non contengono gli usi e costumi locali, espressione di modelli di comportamento e di vita delle popolazioni indigene. Ma ciò è dovuto probabilmente al fatto che è questo il prodotto che viene più sollecitato dai turisti e sul quale, quindi, insistono i pubblicitari. Inoltre è ancora da accertare «se la ricerca e la comprensione delle tradizioni, degli usi e costumi locali, sia veramente utile e la si possa, sia pure dolcemente, imporre a quei turisti che cercano soltanto una “vacanza” nel senso letterale (vacatio) della parola». Anni dopo Fragola ritornerà sull’argomento dichiarando che «i turisti di massa non vanno troppo per il sottile e si accontentano; non si rendono conto dell’alterazione e sono larghi di applausi.».
Secondo il sociologo inglese John Urry, invece, il turista è spesso consapevole di vivere un’esperienza non autentica in cui luoghi e divertimenti sono ricostruiti o riprodotti per soddisfare le sue esigenze, ma questo non lo dissuade dallo sperimentare ciò che è comunque fuori dall’ordinario, dal quotidiano.

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Fragola concludeva il suo scritto degli inizi degli anni ’70 affermando che le cose potranno cambiare quando il turista andrà alla ricerca, oltre che di svago, anche di un arricchimento delle proprie esperienze e delle proprie nozioni: un «arricchimento culturale» che si può ottenere con la pratica del turismo inserendo lo straniero nel sistema di vita degli indigeni, che comprende lingua, abitudini, caratteristiche, usi e costumi, sempre nei limiti del possibile e del consentito.
Quasi vent’anni dopo, Fragola ribadisce la differenza tra i turisti che si propongono di capire qualche cosa del paese e turisti del tutto frettolosi e indifferenti che si contentano di “vedere” senza capire o approfondire. Infatti, molti turisti «vedono»; pochi «capiscono». L’obiettivo, spesso difficile da raggiungere, di alcuni turisti «colti» è quello di conoscere e capire il paese, assumendo per qualche momento la veste dell’antropologo culturale che va alla scoperta delle «culture diverse» con lo scopo di studiare e capire la cultura dei popoli, il loro modo di vivere, i loro usi e costumi, i riti, la loro religione, la mentalità ecc. Fragola consiglia che un buon metodo è quello di non partire «impreparati»: si può cercare di capire qualche cosa con l’aiuto di letture di guide e soprattutto di libri che descrivono il paese, da leggere prima di iniziare il viaggio.
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