“L’arte racconta”… una frase che abbiamo sentito spesso e che racchiude una profonda verità. E sì, perché l’arte non solo ci racconta la storia dell’artista che ha realizzato l’opera, la sua committenza, il soggetto rappresentato, la tecnica utilizzata… Ma spesso l’arte ci racconta più di quanto possiamo immaginare.

Roma, Palazzo Barberini. Crediti fotografici: Gallerie Nazionali di Arte Antica
Come in questo quadro, Diana e Atteone del 1600 circa, un olio su rame conservato a Roma, alla Galleria Nazionale di Arte Antica nella collezione a Palazzo Barberini. Si tratta in realtà di una copia, tratta da un quadro similare realizzato dal pittore Joseph Heintz il Vecchio. L’originale del dipinto, che si distingue dalla copia conservata a Roma per alcuni particolari, è anch’esso un olio su rame datato al 1590-1600 circa, ed è conservato a Vienna, al Kunsthistorisches Museum.

Joseph Heintz il Vecchio, così chiamato per distinguerlo da suo figlio Joseph Heintz il Giovane, nasce a Basilea nel 1564. Dopo aver effettuato i suoi primi studi nella bottega di Hans Bock il Vecchio, soggiorna varie volte in Italia: Roma, Firenze e in particolare Venezia, dal 1587 al 1588. Nel 1591 Rodolfo II d’Asburgo lo volle a Praga, dove in quegli anni lavoreranno molti altri grandi pittori del Manierismo internazionale. Rodolfo, divenuto imperatore del Sacro Romano Impero nel 1575, aveva trasferito nel 1583 la sede della corte imperiale da Vienna a Praga. Heintz divenne così il ritrattista ufficiale di corte ed anche il quadro Diana e Atteone fu commissionato dall’imperatore. Il pittore ritornò varie volte in Italia e morì a Praga nel 1608.
Il tema raffigurato nel dipinto è tratto dal terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio.
Atteone era un giovane amante della caccia. Durante una battuta si imbatte casualmente in una grotta con una fonte dove la dea Diana/Artemide, affaticata dalla caccia, era solita bagnarsi insieme alle sue ninfe. Esse, appena si accorgono della sua presenza, cercano di coprire la nudità di Diana nascondendola con i loro corpi. Ma la dea, distinguibile dalla falce lunare sulla testa, adirata per l’oltraggio prese dell’acqua e bagnò il volto di Atteone aggiungendo parole che predicevano la futura sventura: “Ora racconta pure d’avermi vista senz’abito, se riuscirai”. Dalla testa del giovane iniziano a spuntare delle corna e tutto il suo corpo ben presto si tramuta in un cervo. Atteone impaurito scappa, ma viene inseguito dai suoi stessi cani che, non riconoscendolo, lo circondano e lo sbranano.
La fortuna del soggetto di questo quadro di Heintz lo si intuisce dalle numerose copie, oltre questa di Palazzo Barberini, realizzate sia stampa che a olio, tra cui quella conservata a Venezia alle Galleria dell’Accademia. Inizialmente considerata autografa, si pensa possa essere una copia del quadro con la medesima composizione conservato a Vienna.

Ma torniamo alla descrizione del dipinto di Palazzo Barberini. Il momento scelto dal pittore è quello poco prima dell’epilogo tragico della storia: vediamo Atteone circondato dai suoi cani, che ha appena violato lo spazio sacro. Diana, attorniata dalle sue ninfe, sta prendendo l’acqua per spruzzarla sul viso del cacciatore. E la metamorfosi sta già iniziando: dalla testa del giovane spuntano infatti delle corna di cervo.
Il nostro sguardo è però attirato dall’atteggiamento di alcune di queste ninfe. Una di loro, in primo piano, si nasconde parte del volto con la mano, ma ci guarda con un occhio rischiando così di assimilarci ad Atteone. E per colpa di uno sguardo, anche noi potremmo avere la stessa punizione ed essere trasformati in cervo!
C’è poi anche un’altra ninfa che cattura il nostro sguardo. Incurante del pericolo, continua a pettinarsi i suoi lunghi capelli al sole.

Osservandola meglio vediamo che la giovane donna indossa un cappello. Non si tratta però di un semplice cappello ma di un indumento specifico chiamato “solana”. Era un cappello di paglia finissima ma senza calotta, con larghe tese per proteggere le spalle e il viso dal sole, fatto appositamente per far sì che si potessero stendere sopra i capelli, appena lavati e ancora bagnati, per esporli ai raggi solari. In questo modo i capelli si schiarivano e si otteneva un tipico colore , allora molto apprezzato e ricercato, il “Biondo Veneziano”. Era una nuance di colore alla moda in quegli anni, soprattutto nella Repubblica di Venezia tra la fine del XV e la prima metà del XVII secolo. Si tratta di un castano molto chiaro tendente al biondo, con intense sfumature rossicce che richiama le spighe di grano mature.

Questo processo di schiaritura era facilitato anche dall’uso di varie sostanze, per lo più vendute da erboristi, aromatari, “muschiari” veneti, così chiamati perché abili soprattutto nella preparazione di prodotti a base di muschio e ambra e “lissadori” che creavano misture per “lisciare” la pelle, cioè creme anti-età e tinture per capelli. Molte di queste ricette per schiarire i capelli, a base dei più svariati prodotti, quali bucce di melagrana, sterco di asina, mallo di noci e altro, erano realizzate anche in casa. Queste tinture venivano stese aiutandosi con la “sponzeta”, un bastoncino con una piccola spugna legata in cima che veniva passata più volte sui capelli dopo averla intrisa in una fiaschetta che conteneva il liquido schiarente.
Pietro Bertelli nel suo “Diversarum Nationum Habitus” edito nel 1589, in una delle tavole che ritraggono una serie di costumi del tempo ci mostra una dama veneziana alle prese con questo “rituale” di schiaritura dei capelli. E sì, perché per ottenere questa particolare colorazione, si trattava di un rituale vero e proprio.

Per far sì che apparissero i preziosi riflessi dorati era però necessario esporsi al sole. Per questo le donne salivano sulle “altane”, uno degli elementi più caratteristici dell’architettura minore veneziana, una sorta di terrazza sopra i tetti delle case che nel Quattrocento, come si vede in alcuni dipinti di Carpaccio, era in legno con balaustra.

Qui si dedicavano alla cosmetica trascorrendo molte ore esposte al sole per schiarire i capelli. E per ripararsi dal caldo indossavano anche una lunga veste bianca di seta o di un tessuto leggero chiamata “schiavonetta“.

E numerosissime sono le donne ritratte nei dipinti dei grandi pittori del ‘500, come Agnolo Bronzino e soprattutto i veneziani Carpaccio, Tiziano e Tintoretto, con i capelli dal tipico color “biondo veneziano”.






- Per approfondimenti su questo argomento: Konrad Bloch, Blondes in Venetian Paintings, the Nine-Banded Armadillo, and Other Essays , Yale University Press, 1995
Vedremo insieme questa bellissima opera di Joseph Heintz il Vecchio insieme a molte altre conservata a Palazzo Barberini, Galleria Nazionale di Arte Antica, SABATO 12 FEBBRAIO alle ore 11.
Per partecipare alla visita guidata è obbligatoria la prenotazione inviando una mail a prenotazioni@vogliadiarte.com indicando NOME, COGNOME e CELLULARE di ogni partecipante.
Per i dettagli della visita vedi qui:
- Sul sito web www.vogliadiarte.com: Visite in programma
- Sulla pagina Facebook “Voglia di Arte Official”: https://www.facebook.com/events/672419374132139/
- Su Meetup “Voglia di Arte”: https://www.meetup.com/Voglia-di-Arte/events/283318028/
✅ Per rimanere aggiornati sui prossimi articoli e gli eventi in programma (visite guidate, tour e viaggi): 1) Metti "mi piace" alla Pagina Facebook Voglia di Arte 2) Iscriviti al GRUPPO FACEBOOK "Voglia di Arte": https://www.facebook.com/groups/2537813356263394/ 3) “Voglia di Arte” lo trovi anche su MEETUP: https://www.meetup.com/it-IT/Voglia-di-Arte Testi a cura di Maria Alessandra de Caterina (www.vogliadiarte.com) - Tutti i diritti riservati. Il materiale di questo sito non può essere copiato o venduto in qualsiasi forma, senza l'autorizzazione dell'autore. E' gradita la condivisione sui Social Network (Facebook, Twitter ecc.) per uso personale e per fini non commerciali.